giovedì 25 aprile 2019

Capitolo Ventidue


Brian Pov.


Non avevo voglia di ripercorrere quel viale in quel momento. Era meglio concentrarsi sulle cose facili, quelle divertenti. Ce ne sono state molte negli anni che siamo stati insieme, io e Jack. Chissà perché, però, la mia mente e il mio stomaco avevano la necessità di buttare fuori tutto quanto. Il cuore no, lui se ne stava lì, spezzettato e riaggiustato come capitava a tenersi su da solo, senza più la forza di vedere e rivedere le stesse scene.
Mia sorella era prima di tutto la mia migliore amica, lo è sempre stata, lo sarà sempre, nonostante gli anni che siamo stati separati e nonostante potessimo passare le giornate a prenderci in giro o a litigare. Il rapporto che ho con lei, nessuno potrà lacerarlo o distruggerlo, forse io ci sono andato vicino, ma per fortuna siamo riusciti a recuperarlo.
«Abbiamo litigato per giorni e giorni, siamo arrivati a non parlarci neanche più. Poi è successo quello che temevamo. Dovevo partire e avevo tempo solo una settimana per prepararmi. Avevo chiamato la mamma, poi avevo tentato di avvisarti, volevo parlarti, ma tu non hai voluto ed ho fatto appena in tempo a darti la notizia. Ero già deluso, amareggiato, incazzato quando sono tornato a casa quella sera. Jack non aveva avuto una buona giornata e si lamentava del mal di testa, non ce l’ho fatta a dirglielo subito. Volevo disperatamente fare pace con quell’uomo, dirgli quanto lo amavo e stringerlo fino a fonderci insieme, ma lui non ne voleva sapere. Pensava di avere altro tempo, io sapevo che non ne potevamo sprecare altro. Così provai a dirglielo la mattina dopo.»

«Sei già sveglio?» Mi chiese quando mi vide in cucina a preparare il caffè. «Devi andare alla base?»
«No.» Scossi la testa. «Ti devo parlare Jack.»
Sapevo che non era il modo migliore per iniziare una discussione, ma non sapevo come affrontare tutta quella faccenda davvero.
«Di cosa?» Si appoggiò al piano della cucina e restò a guardarmi. In casa non c’era nessun rumore, solo noi due in cucina con i nostri respiri.
«Ieri ci hanno comunicato che la mia squadra deve partire. Fra cinque giorni.»
Lo vidi spalancare la bocca e diventare pallido, cercò di mascherare la sua espressione passandosi le mani tra i capelli e strofinandosi il volto, ma gli occhi lucidi riuscii a vederli ugualmente.
«Quindi… è arrivato il momento.» Disse.
«Sì.»
«Quanto starai via?» Mi chiese a fatica.
«Dai sei ai nove mesi.»
«Merda… è tantissimo.» Mormorò. Lo vedevo combattuto tra il restare fermo lì a parlare con me e correre in camera a fare i bagagli e andare il più lontano possibile.
«Dovrò andare alla base solo due giorni prima di partire, ci hanno dato questi tre giorni per stare con le nostre famiglie.» Gli dissi e per quanto avessi voglia di partire, andare a trovare mia madre e mia sorella, sapevo che loro non mi volevano e che avrei fatto un viaggio a vuoto. Volevo stare con Jack, vivere gli ultimi giorni con lui, perché ero certo che una volta partito, sarebbe finita la nostra storia.
Si schiarì la voce e puntò lo sguardo verso il salotto.
«Ok. Beh io… Ora devo andare al lavoro. Ci vediamo stasera, quando torno.» I suoi passi erano più veloci di ogni altra mattina. Mi accasciai sulla sedia e seppi che quella era la fine.
Non potevo stare lì, non volevo stare con lui quei tre giorni a litigare peggio di tutte le altre volte. Avrei voluto passare tre giorni meravigliosi con lui, fare tutto quello che non avevamo fatto prima, stare comodamente a letto e amarci come se non ne avessimo mai abbastanza. E invece lui doveva andare al lavoro.
Aspettai che venisse a salutarmi prima di andarsene, come ogni mattina, ma non lo fece. Uscì dall’appartamento come se io neanche ci fossi. Invece ero lì, seduto su quella cazzo di sedia a chiedermi perché.
Lasciai il caffè nella brocca, raccolsi le mie cose in giro e preparai le mie valigie.

«Non ti ha nemmeno salutato? E tu te ne sei andato?» Mia sorella era incredula.
«E’ tornato, dopo quasi un’ora.»
«Davvero?»


Sentii la porta aprirsi mentre mi stavo vestendo. Avevo fatto la doccia dopo aver raccolto tutte le mie cose, avevo ancora i capelli bagnati e il profumo del suo bagnoschiuma sulla pelle. Nessun altro aveva le chiavi, quindi era ovvio che fosse lui. I miei bagagli erano in corridoio, pesanti e pieni della mia vita. Avevo rubato la foto che avevamo in camera, troppo codardo per lasciarmi indietro tutto.
Presi un respiro profondo e uscii dal bagno per trovarlo seduto sul letto, in camera.
«Hai dimenticato qualcosa?» Dissi, cercando di non farmi montare dalla rabbia. Avrei voluto rispondere io a quella domanda, perché aveva dimenticato un milione di cose.
«Te ne vai?» Invece mi chiese.
«Tu cosa dici?» Dovevo ricordarmi che cercavo di stare calmo per il bene di entrambi.
«Perché?» Ma proprio non ci riuscivo, soprattutto se si comportava come un immaturo del cazzo.
«Mi fai davvero questa cazzo di domanda?» Risposi e, arrabbiato, lanciai l’asciugamano per terra.
«Hai detto che puoi stare qui tre giorni.»
«Con una persona che non mi vuole?» Inarcai il sopracciglio.
«Non è che non ti voglio, Brian.» Si passa una mano dietro il collo, nel classico segnale di quando è spaesato.
«E allora cosa?»
«Stai per partire, cazzo!» Scosse la testa. «Cerca di capirmi. E’ piovuta tutta questa merda da un momento all’altro e… non so cosa fare!» Scoppiai a ridere, una di quelle risate amare e tese.
«Da un momento all’altro, mi dice! Sono mesi che parliamo di questa ipotesi, mesi che non facciamo altro che litigare e litigare e litigare ancora. Mi sembra di essere su un campo minato da settimane. Non ci parliamo, non ci baciamo, non scopiamo neanche più! E adesso che l’ipotesi si è concretizzata tu mi dici che devi andare al lavoro e neanche mi saluti.» Ero fuori di me dalla rabbia.
«Brian, devi cercare di capirmi.»
«No. Basta. Sono stanco Jack. Questo è il mio lavoro, la mia vita, sono le mie scelte. Se non sei in grado di capirle, di appoggiarmi, di condividerne una parte allora vuol dire che non mi ami come credi e vuol dire che non potremmo mai stare insieme.»
«Mi chiedi di condividere la tua voglia di andare a morire, merda!»
«No, ti chiedo di amarmi!» Gridai a pieni polmoni. «Amare una persona significa che, nonostante tutto, le sue scelte sono un po’ anche le tue.»
«Brian, io ti amo.»
«No. Non mi ami. Forse una volta, forse i primi tempi, forse prima di quando tutto questo casino è iniziato.»
«Non dire così.»
«Sono stati mesi di merda, Jack. Non puoi neanche immaginare cosa volesse dire alzarsi con il terrore di litigare con te, per poi non parlarti, non baciarti, non toccarti. Andare ogni giorno alla base e avere la paura che mi chiedessero di partire, perché sapevo che in quel momento tra me e te sarebbe finito tutto. Così ho vissuto in questi mesi.»
«Ti avevo detto che potevamo cambiare vita, insieme.»
«No, merda. No. Io non voglio cambiare vita. Io voglio partire. Voglio fare questa cosa, ci credo fino in fondo. Credo in quella cazzo di divisa e credo nel mio cazzo di nome cucito sopra. Questa è la mia vita. Questa è la mia scelta. Ho perso mia madre e mia sorella per portare avanti la mia idea, il mio credo. E adesso… sto perdendo te.»
«Brian… io…»
«Tu. Tu non ce la fai. Tu non puoi. Tu non hai mai voluto neanche provarci.»
«Non dire così, non è vero. Cosa sono stati questi anni?»
«Un’enorme, abissale, bugia.» Risposi allargando le braccia. Scossi la testa e mi infilai la maglietta nera.
«No. Ti amo Brian, ti amo davvero. Questi anni con te sono stati meravigliosi, io sono stato bene, ero felice e ti amo davvero. Devi credermi.»
«Ti credevo. Mi fidavo di te, ti avrei affidato la mia vita. Ma ora? Ora ti guardo e mi chiedo cosa cazzo ci sia successo.»
«Il tuo lavoro è pericoloso, Brian. Come fai a non capirlo?»
Mi infilai i calzini restando in equilibrio su una gamba. Poi cercai le mie scarpe per la camera.
«Sai cos’è pericoloso Jack?» Scosse la testa. «Restare soli. Partire, andare lì, fare il mio lavoro e sapere di essere da solo. Di non avere qualcuno che mi ama abbastanza da aspettarmi. Questo è pericoloso. Questo fa più paura di ogni altra minchiata, di ogni altra paura.»
Avevo gli occhi lucidi e il cuore pieno di rabbia. Non ce la facevo più. Dovevo uscire da quella casa, lasciarlo da solo, permettergli di andare avanti con la sua vita e, un giorno, essere felice se si fosse costruito la sua famiglia come sperava. Voleva una casa con il giardino, un compagno per la vita, un cane… Voleva qualcuno che ci fosse sempre. Io non ero quel qualcuno. Io ero solo una parentesi.
«Brian… non te ne andare. Resta qui stanotte, stiamo insieme. Non posso… Ti prego. Non voglio che tu te ne vada. Questa è l’ultima volta che stiamo insieme non voglio ricordare questa discussione, non voglio… » Sapevo che anche i suoi occhi erano pieni di lacrime, ma per quanto lo amassi, e lo amavo davvero da morire, dovevo salvare quel piccolo pezzo di cuore che mi era rimasto.
«E’ l’ultima volta che stiamo insieme perché l’hai voluto tu. Ti avrei seguito in capo al mondo se non mi avessi chiesto di scegliere, sarei sempre tornato da te, Jack. Se tu mi avessi aspettato, se fossi stato coraggioso e mi fossi stato vicino, e avessi scelto di stare con me, fino in fondo, io sarei sempre tornato da te. Ovunque fossi. E questa non sarebbe stata l’ultima volta, non sarebbe stato un addio o la fine della nostra storia. Sarebbe stato solo un arrivederci un po’ triste.» Avevo indossato le scarpe e stavo mettendo la piastrina attorno al collo, i miei dati su un pezzo di ferro. «Quello sarebbe stato amore… questo?» Indicai la stanza e me e lui con un gesto delle braccia. «Questo non so cosa sia, ma sono sicuro che non è amore.»
Non mi rispose, abbassò la testa e si guardò i piedi. Le vidi le lacrime scorrergli lungo le guance, ma dovevo essere forte e andarmene o quel brandello di cuore che mi era rimasto si sarebbe disintegrato.
Feci per uscire dalla camera, poi mi voltai. Mi guardai attorno, cercai di vedere se avevo preso tutto e poi notai una foto. Non la ricordavo neanche più. Era sul suo comodino.
Ce l’aveva scattata un collega, con il telefonino, mentre eravamo al pub, una sera. Eravamo vicini e ci guardavamo, entrambi sorridevamo e ci guardavamo negli occhi. Era scura, non si vedeva bene e la qualità non era buonissima. Eppure lo sguardo di quei due ragazzi era lucido di amore, un sentimento così diverso da quello che c’era in quel momento nella stanza e che mi disintegrava l’anima. Avevamo perso tutto.
«Merito di essere felice nonostante le mie scelte, Jack. Merito qualcuno che mi ama davvero, che mi sostiene, che mi aspetta perché non può vivere senza di me. Merito qualcosa di bello dalla vita che mi salvi dallo schifo che vedrò nel mondo. E merito… » Feci una pausa perché era difficile, difficile guardarlo piangere e non baciarlo, andare via e mettere fine a tutta questa storia. «Merito qualcuno che abbia paura con me, che non mi volti le spalle, che mi tenga la mano e che, nonostante tutto, stia al mio fianco. E forse tu meriti le stesse cose, ma in questo momento sono incazzato come una bestia e mi auguro solo che tu capisca cosa abbiamo perso, perché ti amo più della mia cazzo di vita e tu invece mi hai lasciato solo.» Mi girai e afferrai i miei borsoni prima di uscire da quella casa. Non avevo più niente.

«Merda.» Disse mia sorella piangendo. Si asciugò le lacrime con la manica del pigiama. «E’ così… straziante.»
«Già.» Dissi con il fiato corto. Ricordare quei momenti mi aveva sempre fatto venire voglia di urlare e di piangere. Ero stremato. «E poi… sono partito. Ha cercato di chiamarmi prima che io salissi su quell’aereo, ma ormai era troppo tardi. Quello che aveva da dire, in quel momento, non mi interessava.»
«Avrebbe potuto dirti che ti avrebbe aspettato.» Vero, avrebbe potuto. Quante volte ci avevo pensato? Tantissime. In cuor mio ero convinto che mi avesse cercato per dirmi quello, per dirmi che mi amava davvero, che gli sarei mancato, ma che sarebbe rimasto lì ad aspettarmi. Invece, quando mi lasciarono tornare a casa venti giorni perché la missione sarebbe durata più del previsto, capii che quello che avrebbe voluto dirmi, durante quella chiamata, sarebbe stato solo un saluto.
«No.»
«Come fai ad esserne sicuro?»
«Perché quando sono tornato a casa, sei mesi dopo per una pausa, l’ho cercato. Avevo chiesto ad un amico di un amico informazioni su Jack, aveva ottenuto l’indirizzo di casa, il luogo di lavoro. Non sono neanche passato da mamma, sono volato direttamente a Chicago per trovarlo.»
«Mi sa che piangerò di nuovo. Merda!» Mormorò e quasi mi venne da ridere, se non fossi stato troppo impegnato a pensare a quei giorni.
«Durante il volo ero agitato peggio di un quindicenne, non ero mai stato così fottutamente agitato nella mia vita e ne avevo fatte tante. Trovare il suo appartamento fu relativamente semplice, grazie al taxi che avevo preso. Ma trovare il coraggio per suonare al citofono era un’altra cosa. Così sono rimasto seduto al bar di fronte a casa sua per ore. Non volevo bere, così presi solo una birra leggera e guardai il portone per tutto il tempo. Non so cosa mi aspettavo. Non lo so davvero. Ma quando lo vidi rischiai di cadere dallo sgabello e di farmi male sul serio. Era ancora più bello di quanto ricordassi. Era… felice. Così mi resi conto che non era da solo. Al suo fianco, mano nella mano, c’era un ragazzo mingherlino come lui e con un tatuaggio sul lato del collo. Ridevano. Parlavano. Fin lì tutto bene. Quando però li vidi baciarsi… capii che era troppo tardi.» In realtà in quel momento il mio cuore si ridusse in frantumi, completamente. Mi mancò il respiro e strinsi talmente forte la bottiglia di birra che la ruppi. Ero deluso, amareggiato, distrutto. «Era davvero finita, ed io mi sentivo così stupido nell’averci sperato anche solo per un attimo, che passai la serata ad ubriacarmi in quel bar, sotto casa sua. Il proprietario chiamò un taxi e mi fece portare all’hotel che avevo prenotato e, il giorno dopo, svegliatomi con un post sbornia da paura… prenotai il volo di ritorno per quel pomeriggio. Passai le mie tre settimane di riposo alla base, da solo.»
Il corpo di mia sorella era scosso dai singhiozzi e le lacrime ormai scendevano incontrollate.
«Brian. Merda. Mi sento così in colpa.» Non glielo stavo raccontando per quello.
«Lo so, piccola.»
«Mi dispiace così tanto.» Si lanciò su di me e mi abbracciò stretto ed io non sapevo cosa fare se non stringerla più forte e baciarle la fronte. Era mia sorella, avevo fatto anche io degli errori e per quanto il suo voltarmi le spalle mi avesse ferito, il mio cuore si era ricomposto stasera. Non mi serviva altro per il momento, solo lei.
«Mi sei mancata da morire.»
«Lo so, merda. Lo so, adesso.»
Sospirai e la strinsi più forte.
«Te lo prometto Brian.» Mi disse alzandosi e guardandomi negli occhi. «Non ti lascerò più solo. Mai più. Puoi contare su di me, quando vuoi. Ti voglio bene, le tue scelte sono state difficili ma…» Scosse la testa e strinse i pugni. «Sono con te. Sempre. Ora ho capito.»
L’abbracciai ancora più forte e restammo così fino a che fuori non iniziò ad albeggiare.
Mi sentii in colpa perché non l’avevo fatta dormire ma lei mi stupì ancora.
«Non abbiamo dormito, sarai distrutto.»
«Non si dorme molto, al campo. Ci ho fatto l’abitudine, ormai.»
«Qui non sei al campo, in una branda sbrindellata. Qui sei a casa, nel mio letto Brian. Dovevo farti sentire bene e farti riposare.»
«Fidati, l’hai fatto.» Sospirai e le baciai ancora la testa. «Non parlavamo così tanto da una vita, Bella. Avevo bisogno di tirare fuori questa storia con qualcuno che mi capisse, che mi amasse.»
«Quando vuoi, Brian.» Mi strinse forte e restammo stesi sul letto per un’altra ora. Poi lei si alzò e strinse le mani tra loro, mi guardò sorridendo e seppi che aveva in mente qualcosa. Mia sorella era una pazza.
«Forza, alzati. Fatti una doccia, beviamo un caffè e ti porto in giro per la città. Voglio portarti a fare colazione in una pasticceria dove prenderai quindici chili solo con il profumo e poi andiamo a Central Park e devo comprare qualche regalo di Natale e tu, signorino, devi comprarti un abito elegante perché devi venire alla festa di Natale della CullenHale.»
«Bella, resterei a letto volentieri.» Risposi sbadigliando.
«Dormirai stanotte, dopo una pizza in compagnia e qualche risata. Sei forte no? Puoi resistere una giornata senza dormire.»
La guardai sorridendo, mentre pensavo a tutte le giornate che avevamo passato senza dormire, con la paura, l’angoscia e le immagini del sangue che ci tormentavano. Lei si accorse di cosa passava nel mio sguardo e scosse la testa.
«Oh no, bello mio. No, assolutamente no. E’ quasi Natale. Sei qui per riposarti, divertirti e stare bene. E’ quello che farò. Forza! Vado a preparare il caffè, tu vai a farti la doccia!»
Sorrisi davvero e mi alzai con calma dal letto, afferrai il telefono dal comodino e guardai l’ora, erano le otto e mezza, lei sarebbe dovuta andare al lavoro ma era lì per me. Sentii i rumori in cucina e mi rilassai per un attimo, sembrava così normale.
«Brian!» Gridò dalla cucina. «Non sento l’acqua scorrere!» Ridacchiai, era come i vecchi tempi.
«Vado, vado!» Lasciai il telefono sul comodino e mi alzai, il mio sguardo cadde sul mobile sotto lo specchio in camera. Una foto ritraeva Bella sulle mie spalle, con un ciuffo di capelli tra le mani e un sorriso birichino sul volto, in un’altra c’era la mamma, mi teneva una mano sulla testa e sorrideva ad un piccolo fagotto tra le sue braccia. Poi ce n’erano altre due… Completamente diverse, che mi lasciarono senza fiato.
In una c’era papà, sorridente, con la divisa addosso e con una Bella sorridente sulle sue gambe, mentre io tenevo in mano una torta con scritto “Auguri papà”. Ricordavo il suo ultimo compleanno, gli avevamo preparato una sorpresa per quella sera, era tornato stanco dal lavoro ma la mamma gli aveva preparato i suoi piatti preferiti e noi lo avevamo accolto cantando “Tanti auguri”. Era così felice che quasi si mise a piangere.
L’altra foto ritraeva me e Bella.
Eravamo seduti nel prato di fronte a casa, uno di fianco all’altro mentre guardavamo il cielo. Mi ricordo quel giorno come se fosse ieri.
L’avevo trovata con una mia felpa sbrindellata ed un paio di jeans logori seduta sull’erba, aveva le lacrime agli occhi e non aveva fatto in tempo a nascondersi da me.
Avevo capito subito che c’era qualcosa che non andava e il suo rituale, quando pensava a papà, era guardare il cielo e isolarsi dal mondo. Così pensai di unirmi a lei per vedere che sensazione dava, fermarsi un secondo e pensare, provare a parlare con mio padre attraverso le nuvole.
Restammo fuori per tutto il pomeriggio, solo alla fine mi disse che aveva paura di dimenticarlo perché era passato già così tanto tempo e lei aveva passato poco tempo con lui, non se l’era goduto abbastanza. Mi sembrò così fragile, in quel momento, ma allo stesso tempo forte e determinata a ricordarsi ogni singolo dettaglio di papà, perché non voleva perdere neanche il suo profumo tra i ricordi.
Non avevo potuto dirle niente perché ogni frase, ogni cosa che mi veniva in mente era così banale da risultare inutile. Restai in silenzio e mi avvicinai fino a prenderla tra le braccia. Le mi disse grazie e mi chiese di non abbandonarla mai, di non lasciarla mai. Una settimana più tardi l’esercito mi rispose per l’arruolamento e tradii la mia promessa.
Mamma doveva averci scorto in giardino e aveva deciso di portare un ricordo con sé, nonostante non sapesse cosa stesse succedendo perché non dava più importanza ai nostri sentimenti da un bel po’ di tempo. Eravamo due bimbi cresciuti in fretta, ma estremamente fragili in quel momento.
«Brian! La doccia!» Cacciai le due lacrime formate a lato dei miei occhi e mi precipitai in bagno per non doverle mostrare il mio viso stravolto. Sotto la doccia i pensieri si affollavano e facevano male. Un dolore così acuto che neanche le ferite in battaglia le ricordavo così potenti.
Uscii dal bagno con un paio di jeans e l’asciugamano a coprirmi la testa, mentre mi asciugavo i capelli. Sentii solo il sospiro terribile di mia sorella e mi ghiacciai. Ero abituato al mio corpo, ormai, non c’erano molti specchi alla base, ma avevo visto con i miei occhi le numerose ferite che mi ricoprivano il petto e la schiena. Avevo dimenticato che quella era casa di mia sorella e che sarebbe potuta entrare in camera in qualsiasi momento.
«Che diavolo…» Non riuscì a terminare la domanda, ma la compresi ugualmente. Cercai di scrollarmi di dosso il disagio per averle mostrato i segni fisici delle mie scelte e afferrai la prima maglietta che trovai nel borsone.
«No, non ti coprire.» Non la ascoltai e in fretta mi infilai la maglia, incazzato con me stesso per essermi dimenticato la promessa fatta a me stesso.
Cercai i calzini nel borsone e la ignorai mentre mi chiamava.
«Fidati Bella, non vuoi ascoltare quella storia. Fai finta di non aver visto.»
«Brian!» Il mio nome risuonò forte nella camera e mi fece alzare lo sguardo su di lei, avevo ancora quella rabbia verso me stesso che bruciava dentro, ma nei suoi occhi vidi il timore, la paura e il terrore agitarsi così violentemente che cercai di calmarmi, per lei. «Non ho più cinque anni, non ho bisogno di essere protetta dal male del mondo. Sono qui, voglio saperlo.»
Sospirai forte, prendendo il cellulare che Robert aveva amorevolmente custodito per me e infilandomelo in tasca. Avevo detto a mia sorella troppe cose in ventiquattrore, avevo la necessità di staccare dalle emozioni forti che impregnavano l’aria e di concentrarmi sulla leggerezza e spensieratezza delle feste di Natale. Era una vita di tempo che non osservavo le luci luminose e una città preda del cambiamento natalizio, mi mancavano persino i Babbo Natale agli angoli delle strade.
«Brian, non mi ignorare!»
«Vestiti, andiamo fuori, sto morendo di fame!» Non potevo cambiare così abilmente discorso con lei, ne ero certo, eppure ci provai.
«Non funziona così.» Si spoglia di fronte a me restando solo con l’intimo addosso mentre si infila un paio di pantaloni aderenti pesanti neri e un maglione verde che le arriva a metà coscia. «Sto aspettando.» Insiste mentre afferra i suoi stivali caldi e li infila stando in equilibrio su una gamba sola.
«Hai avvisato Edward che parteciperemo anche noi alla serata?» Mi ricordai che ieri sera, o stanotte a seconda dell’ora, mi aveva promesso che l’avrebbe fatto.
«Lo farò solo se mi racconterai cosa sono quelle cicatrici.»
Ridacchiai e scossi la testa mentre recuperavo il mio giubbino dal borsone.
«Non funziona così Bella, ti ho raccontato quello che volevi sapere ieri sera proprio perché avevi promesso che lo avresti fatto, quella che non mantiene le promesse sei tu, non io!»
Mi rendo conto di quello che ho detto solo nel momento in cui non si sente volare neanche una mosca in tutta la casa. Persino Poppy è rimasta ferma all’entrata della camera, immobile come la sua padrona. Non volevo ferirla, davvero. «Bella, mi dispiace. Non volevo che uscisse così quello che ho detto.» Scusarmi era sempre stato difficile, ma ho perso il conto di quante volte l’ho fatto con mia sorella, anche senza che lei sapesse.
«Non importa. Non è successo niente.» Si chiude in bagno per quelli che sembrano minuti interminabili e io mi siedo sul letto, mentre l’aspetto. L’occhio mi cade di nuovo su quella foto, quei due ragazzi che sembrano così lontani anni luce da quelli che siamo oggi.
Non abbiamo mai litigato da piccoli, c’è sempre stato un bellissimo rapporto tra me e mia sorella, uno di quelli da far invidia. Certo, alle volte è capitato che ci urlassimo contro, ma dopo due minuti era tutto come prima. Dal momento in cui la notizia della mia partenza si stabilì in casa come una certezza, invece, lei iniziò a non parlarmi più. Non gridò neanche quella volta.

Rigiro tra le mani la lettera, mentre aspetto che Bella e mia madre prendano posto per la cena. Dovrei parlargliene in un altro momento, dovrei dirglielo quando siamo seduti sul divano tutti insieme e non rovinare questo pasto. Ma, ormai, è così difficile che mia madre voglia guardare la televisione con me e mia sorella che questo è davvero l’unico posto giusto.
Sento scendere le scale di corsa con il passo veloce di Bella e poi sento mia madre dirle che ha una strana sensazione e che di colpo le è passata la fame.
Non ho ancora detto nulla e già nell’aria si percepisce la tensione, come se da solo riuscissi a emanare tutta l’incertezza e la paura di questa notizia.
Quando prendono posto, ognuna di fronte al piatto pieno che mi sono preoccupato di riempire, mi osservano.
Non so cosa si legge sul mio volto, probabilmente tutto perché la forchetta di mia madre si riappoggia debolmente sul tovagliolo e mia sorella sposta il piatto più lontano.
«Che succede, Brian?»
Non puoi mentire alla tua famiglia. Mai.
«Devo dirvi una cosa. Non so come la prenderete ed ho una paura fottuta a dirvelo ma…»
«Ci stai facendo preoccupare, stai male? E’ successo qualcosa a scuola? Non ho sentito nulla io.» Mia sorella cerca di vedere se ho qualche livido, temendo che io abbia fatto a botte con qualcuno, anche se credo che la paura più grande sia che io stia male.
«Vorrei davvero che nel momento in cui vi dirò quello che devo, vi ricordate che sono Brian Swan, tuo figlio e tuo fratello.» Dico guardandole negli occhi una per una.
«Brian, così mi spaventi. Che succede?»
«Succede che… qualche mese fa ho scelto cosa fare nel mio futuro e insieme alle varie domande del college che ho spedito... ho provato anche l’accademia militare. Questa settimana ho fatto le visite mediche e i test fisici. Devo presentarmi in Accademia alla fine di Luglio.»
Ho guardato dietro le spalle di mia madre per tutto il tempo mentre parlavo come un disco rotto, così non ho visto l’espressione dei loro volti. Quando mia madre si schiarisce la voce e tenta di dire qualcosa mi faccio coraggio e le osservo. Vorrei non averlo mai fatto. Non dimenticherò mai i loro sguardi pregni di terrore e paura.
«Perché Brian?» Chiede solo mia madre.
«Perché credo nelle stesse cose e negli stessi valori in cui credeva papà. Perché so che è la scelta giusta per il mio futuro e che sarò soddisfatto di aver servito il mio Paese. Perché nessun college mi ha fatto sentire eccitato come l’idea di indossare una divisa e di fare qualcosa per la gente.» Tentare di spiegare in poche parole e con il nodo in gola quello che mi aveva portato a scegliere quella strada è molto difficile, ma per un brevissimo attimo vedo negli occhi di mia madre la comprensione.
«Tuo padre, prima di entrare in polizia, era un militare. Ci siamo conosciuti durante uno dei suoi periodi di licenza, aveva solo due settimane in cui poteva stare con la sua famiglia. Io mi ero trasferita da poco di fianco alla casa dei suoi genitori e quando una mattina lo vidi lavare la sua macchina, credo di essermi innamorata del suo sorriso spensierato proprio quel giorno.» Prende un respiro profondo e torce le mani tra loro. «A quei tempi non c’erano i telefoni, né i computer, né la possibilità per lui di tornare a casa quando voleva, perché lo sai bene, all’epoca il nostro Paese era in fermento e c’era sempre più bisogno di forze armate ovunque. Non poteva promettermi nulla. Non poteva darmi nessuna speranza. Così mi diede il più bel bacio della mia vita alla fine di quelle due settimane e mi disse che se Dio avesse voluto ci saremmo visti alla prossima licenza.»
Non avevo mai ascoltato quella storia, nonostante mia madre parlasse volentieri di papà quello era ancora qualcosa di segreto.
«Lo aspettai, Brain. Aspettai per settimane e mesi lunghissimi, mi affacciavo ogni mattina dalla finestra sperando di vederlo lavare la sua auto come quel primo giorno. Ogni mattina mi dicevo che se non era quel giorno, sarebbe stato quello dopo. Ho avuto speranza, fede, pregavo Dio che lo proteggesse e, alla fine, dopo undici mesi quando mi alzai pronta per andare a lezione lo trovai lì fuori, seduto sugli scalini del portico dei miei genitori. Indossava una maglia verde con i pantaloni neri e aveva in testa un berretto di lana. Mi sorrise e mi disse che Dio aveva ascoltato le sue preghiere.» Non so perché mi stava raccontando quella cosa, ma ogni piccolo pezzo della loro vita, per me, era un tesoro.
«Cosa successe poi?» Chiede mia sorella.
«Riuscimmo a stare insieme tre mesi, poi fu richiamato in missione. Prima di andarsene mi mise un anello al dito e mi chiese di avere fede ancora, di aspettarlo, di pregare per lui e per noi. Tornò sette mesi dopo con una cicatrice sulla gamba e gli occhi pieni di paura, ma ci sposammo lo stesso.» Prende fiato mentre noi restiamo in silenzio. «Ho sempre saputo che la sua vita era divisa in due. Ha sempre creduto che fosse il suo ruolo quello di far parte degli angeli che tengono sicuro il nostro Paese. Mi sono innamorata di vostro padre anche per i suoi valori, la sua tenacia e il suo senso patriottico. Ho avuto fede, ho pregato, ho sperato ed ho aspettato tanto. Tantissimo, ragazzi.» Mi fissa negli occhi mentre dice le ultime parole. «E’ stata molto più dura avere speranza, sangue freddo e fede quando è tornato definitivamente a casa, cambiato radicalmente.» Sospira e abbassa gli occhi per un attimo prima di rialzarli, delusi e distaccati verso di me. «Non ho più fede, Brian. Mi è stata strappata quando papà è morto anni fa. Non ho più voce per pregare perché tutte le mie preghiere, quel giorno, non sono state ascoltate. Non ho più tempo per aspettare… non ho più la forza per aspettare. La scelta è tua, so che tuo padre la condividerebbe, so che ti accompagnerebbe in accademia e sarebbe orgoglioso di te. Io, in questo momento, non riesco ad esserlo. Non ho più nulla da dare. Sii prudente, sii forte, sii te stesso e non cambiare mai.» Si alza dalla sedia e con passo strascicato si chiude in camera.
«La mamma… se n’è andata?» Ero incredulo che mi avesse raccontato questo pezzo della sua vita per poi sparire e dirmi, come ultima cosa, che non aveva più la forza per pregare per me.
Bella si alza in piedi e sistema con tranquillità la sedia sotto il tavolo, poi si appoggia al bancone della cucina.
«Sì, e forse io dovrei fare la stessa cosa.» Scuote la testa mentre mi guarda. «Ci hai pensato Brian? Hai pensato a cosa tutto questo significa? A cosa, la tua scelta, porterà nella nostra famiglia?»
«Sì.» Mi sono detto che erano forti, che potevano farlo, che mi avrebbero capito.
«Quindi vuol dire che semplicemente non ti importa niente della mamma, di me.» Sospira e vedo le sue mani stringersi a pugno. «Abbiamo già perso papà a causa dei suoi valori, del suo lavoro. Dobbiamo perdere anche te?»
«Non mi perderete.»
«E’ una promessa? O è quello che speri? Perché sai, Brian, nessuna persona ha il diritto di dire una cosa del genere, tantomeno un militare.»
«Non è un promessa, Bella. Intanto faccio l’accademia, ci sono altre strade oltre a quella del campo di battaglia.»
«Sentiamo, quali sono?» Poi scuote la testa e parla ancora prima che possa prendere parola io. «Sai che c’è? Non mi interessa. Davvero. Sei sempre stato libero di fare le tue scelte, hai preso questa strada che ti porterà lontano da noi, che ci farà preoccupare ogni secondo delle nostre giornate per il resto della vita. Se non sei in grado di capire come questo rovinerà la nostra famiglia per sempre, non sono io a dovertene parlare.» Se ne va anche lei, dopo avermi lanciato uno sguardo dispiaciuto.


La sua voce che mi chiede cosa guardo mi strappa dal ricordo.
Le indico la foto da cui i pensieri si sono scatenati e lei sorride.
«Quello è stato il giorno più bello di quell’anno. Io e te a parlare con papà in silenzio, mentre in silenzio rafforzavamo l’affetto che univa me e te. Se non fosse stata per la notizia che ci hai dato qualche settimana più tardi sarebbe stato tutto bellissimo.»
Non potei darle torto.

martedì 16 aprile 2019

Capitolo Ventuno


Brian Pov.

Essere in guerra è la morte dell’anima. Vedere e rivedere le stesse immagini, tutti i giorni, tutte le notti ti fa diventare un robot, privo di sentimenti e di calore. Allo stesso tempo, quando torni a casa, tutto è amplificato. Essere addestrati al combattimento, brandire un’arma per difendere la propria vita, quella dei compagni, difendere dei valori e il proprio obiettivo… è qualcosa che ti cambia irrimediabilmente. Non potrei trovare qualcosa di più difficile da fare.
Ma questa è la vita che mi sono scelto e ci faccio i conti ogni giorno, credo in quello che faccio, nella mia divisa, nelle mie armi e nei valori con cui indosso ogni giorno l’espressione fredda e calcolatrice insieme alla casacca con il mio nome sopra.
Pensavo che il resto fosse tutto una passeggiata, davvero. Che niente potesse competere con la paura di uscire ogni giorno dalla mia base militare.
E invece… Sono qui a casa di mia sorella, sdraiato sul letto in un silenzio tombale, mentre i miei occhi continuano a restare fermamente serrati. Tremo per la paura, come non mi è mai successo. Raccontare la storia a Bella si sta rivelando una delle cose più difficili, al di fuori del mio lavoro. Se lei non dovesse accettarmi, realizzato quello che le sto dicendo, se lei dovesse giudicarmi… cosa farei? Resterei solo di nuovo. E’ così angosciante.
Jack mi manca ogni giorno della mia vita, ogni secondo, l’ho odiato a lungo per quello che ci aveva fatto, mi sono odiato più di quanto ho odiato lui e ricordare ogni cazzo di momento felice passato insieme, prima della fine, mi fa tornare indietro di mille anni, a quel momento così buio della mia vita che ero riuscito a spazzare via per un po’.
Non mi rendo conto di star piangendo fino a quando sento delle dita spazzare via le lacrime dalle mie guance.
«Brian.» Il mio nome sussurrato dalle labbra di mia sorella è come una piuma leggera che copre un po’ di quel dolore. Si avvicina, fino a stringermi tra le sue braccia. Mi sono sempre sentito al sicuro con lei, come se niente potesse ferirmi, come se nulla potesse farmi del male. Non so se gliel’ho mai detto, ma quella davvero forte, tra noi due, è sempre stata lei. Non ci crede, non ci ha mai creduto, ma quando la notte si svegliava preda agli incubi ed io ero lì al suo fianco, non era perché lei avesse bisogno di me, ma perché io avevo bisogno di lei. Perché ero sempre sveglio, vegliavo su di lei affinché stesse bene, e mi sentivo così impotente e inutile mentre lei combatteva con le unghie e con i denti per superare tutto. E allora la tenevo tra le mie braccia, la cullavo e nel frattempo mi aggrappavo a lei come se fosse stata la mia roccia, ho sempre avuto bisogno di lei per vivere ogni giorno, lei non lo sa, ma è così.
«Non serve che mi racconti tutto. Va bene così.» Mi cullava come un bambino bisognoso di coccole prima di dormire e mi sentivo al sicuro.
Restai qualche secondo in silenzio, poi mi schiarii la voce. Volevo continuare, dovevo continuare. Non sapevo di avere bisogno di parlarne con qualcuno fino al momento in cui ho iniziato a raccontare la mia storia a Bella.
«Dove eravamo arrivati?» Le chiesi. Lei mi tenne ancora stretto.
«Al bacio di quella sera.»
Sì. Quel bacio.
Il nostro primo bacio.
Con gli occhi chiusi ritornai a quel fine serata memorabile.

Lo guardavo dall’altra parte del tavolo da biliardo. Restavano solo tre palline da infilare in buca. Non avevamo scommesso nulla sulla vittoria, nessun premio. Per fortuna. Le sue due palline erano allineate e favorite. La mia in posizione pessima per buttarla nella buca. Mi fece una smorfia per prendermi in giro, poi, prendendosi tutto il tempo del mondo, si piegò in avanti e tirò. Le due palline erano dentro. Si alzò con quel sorriso malizioso che aveva tenuto per tutta la sera, mise al suo posto la stecca e infilò il bomberino sopra la t-shirt. Lo imitai, prendendo la mia giacca di pelle e seguendolo fuori dal locale. La macchina era parcheggiata in una via laterale, mentre lui era venuto a piedi.
Non sapevo cosa dire. Avrei voluto chiedergli un altro miliardo di cose e, allo stesso tempo, volevo che stessimo in silenzio, possibilmente con le labbra incollate a scoprire se eravamo compatibili anche in quello.
Era qualcosa più forte di me, volevo toccarlo, assaggiarlo, sentivo le mani che prudevano per il desiderio di stringere il suo corpo a me e sfregare la nostra pelle insieme.
«Brian, grazie della compagnia per la serata. Mi sono divertito. Magari la prossima settimana possiamo unire i nostri gruppi. Che ne pensi?»
Pensavo che era un’idea stupida, che volevo vederlo da solo, come quella sera, e possibilmente sdraiato su qualche superficie morbida.
«Buona idea. Vuoi un passaggio?» Scrollò le spalle.
«Abito qui vicino, faccio due passi. Grazie comunque.»
«Faccio due passi con te, se non ti dispiace.» Non avevo nessuna voglia di terminare la serata in quel momento, volevo sapere di più, conoscerlo di più. Infilai le mani in tasca dei jeans e lo seguii verso il suo appartamento. Mi chiese se la domenica passavamo tutto il tempo alla base, era interessato all’aspetto pratico della mia vita. Aveva ragione nel dire che abitava lì vicino. Arrivammo in cinque minuti. Restai fermo sulle scale, scaricando il peso da un piede all’altro, imbarazzato.
«Ecco, io abito qui, al quarto piano. Vuoi… salire?» Scossi la testa. Non ero ancora pronto a entrare in casa sua, né avevo il coraggio per farmi avanti, tirarlo a me e baciarlo.
«Grazie, ma devo tornare alla base.» Ero impacciato. Aprì il portone, con il sorrisetto di prima sul volto e si spinse per metà dentro. Mi fece un cenno con la testa per liquidarmi ed io mi girai per tornare alla macchina. Ero all’ultimo scalino quando mi chiamò.
«Ehi, Brian.» Mi girai verso di lui, aveva ancora quel sorrisetto birichino sul viso che mi veniva voglia di mordere. «E’ un peccato che tu non voglia salire. Ho qualche cassa di birra irlandese che aspetta solo l’occasione giusta per essere aperta, gustata sul divano, magari nudi.» Aveva toccato due tasti dolenti. La birra. Il restare nudi insieme. Aveva intuito che lottavo interiormente e che ancora non avevo deciso né avevo il coraggio di buttarmi e lo stronzo aveva capito che non potevo rifiutare le sfide. Avevo salito i tre scalini restanti in un millesimo di secondo mentre lui ridendo cercava di chiudere il portone. Lo spalancai e, con la mano sul suo fianco lo spinsi contro il muro interno del palazzo.
«Sai cosa stai facendo?» Mormorai a un soffio delle sue labbra. Lui continuò a sorridere.
«No, ma non mi dispiace scoprirlo se queste sono le premesse.» Imprecai tra i denti e mi avvicinai alle sue labbra con furia. Nessuna delicatezza dopo quella sfida. Lo strinsi a me con entrambe le mani, una sul fianco, l’altra tra i capelli. La mia lingua cercava assiduamente la sua che cercava la mia. I denti sbattevano contro per la furia di quel bacio e le sue labbra erano morbide, carnose e al sapore di birra. Mi lasciai scappare un gemito roco quando mi attirò verso le sue labbra con entrambe le mani sulla mia testa. Mi graffiava, mi spingeva, mi divorava come se potesse mangiarmi. Le nostre gambe erano in contatto e i nostri bacini sfregavano insieme in una frizione eccitante. Ero duro. Duro come mai. Sentivo il suo gonfiore agitarsi sotto il jeans e volevo disperatamente toccarlo. Lasciai che le mie mani vagassero sotto la sua maglietta e il contatto con la pelle nuda mi fece gemere ancora. Il suo sospiro tra le mie labbra e il gemito che le mie unghie sulla sua pelle gli scatenarono mi incendiò. Lo schiacciai contro il muro mentre premevo il mio bacino con il suo, le mie mani ancorate ai suoi fianchi e le bocche a contatto. Mi mordeva le labbra, succhiava la mia lingua e la graffiava con i denti per poi spingersi ancora a baciarmi, facendo incontrare le nostre labbra e cercando la mia lingua. Non ero più padrone di me stesso, né del mio corpo.
D’un tratto la luce delle scale si accese e dall’alto sentimmo una porta chiudersi. Ci staccammo e mi allontanai di un passo da lui. Avevo il fiatone e cercavo disperatamente i miei capelli per poterci passare le dita in mezzo.
«Cazzo.» Si lasciò sfuggire appoggiandosi alla parete.
Restai a prendere fiato qualche secondo, poi mi schiarii la voce e cercai le parole giuste per toglierci dall’imbarazzo di quel momento. Non ne trovai.
«Ho capito, ragazzone. Mai sfidarti.» Disse a voce bassa. Volevo sorridere, avrei voluto avvicinarmi a lui e continuare a baciarlo, strusciarmi sul suo corpo e farmi toccare da quelle mani meravigliose. Il rumore dell’ascensore che arrivava al piano terra, invece, mi gelò.
Ne uscì una ragazza che si stava sistemando i capelli, era evidente cosa era appena successo nell’appartamento sopra le nostre teste. La osservai uscire dal portone ignorandoci, ma ormai era troppo tardi. Jack aveva captato la mia reazione di paura e si era raddrizzato e messo sulla difensiva.
«E’ ora che tu vada alla base, Brian.» Si avviò verso le scale ma lo fermai prendendolo per un braccio.
«Aspetta.» Riuscii a mormorare.
«Cosa vuoi?» Era incazzato, lo capivo ma doveva anche provare a comprendere il mio disagio per quella nuova esperienza.
«Mi andrebbe di vedere il tuo appartamento e di bere una di quelle birre irlandesi, se non ti dispiace.» Poi sorrisi lentamente. «Vestiti.» Speravo di riuscire a fargli passare quel gelo improvviso invece svincolò il braccio dal mio e fece un altro scalino. Non ero pronto, lo sapevo, ma non volevo neanche che si arrabbiasse o che pensasse che mi ero pentito.
«Non sono un cretino Brian e non mi piacciono le persone che si prendono gioco di me.»
Ero imbarazzato, incazzato con me stesso, eccitato e molto confuso. Avevo bisogno di calmarmi e riflettere su quello che era successo, ma non volevo mandare a puttane così la serata.
«Non mi sto prendendo gioco di te.» Gli dissi raggiungendolo. Si spinse verso il muro per allontanarsi da me e mi avvicinai di più, fino a far entrare in contatto i nostri corpi.
«Non mi è sembrato così un attimo fa.»
«Sono solo… confuso.»
«Beh, wow. Grazie! Era proprio quello che volevo sentirmi dire dopo… quello.» Indicò il punto dove eravamo qualche minuto prima.
«Cerca di capire, cazzo!» Mi lasciai sfuggire. Mi avvicinai ancora fino ad appoggiare la fronte alla sua. Chiusi gli occhi e in quel momento sentimmo la porta del primo piano aprirsi e richiudersi. Aprii gli occhi e lo trovai a fissarmi, incuriosito e con quella domanda che aleggiava tra noi: “E adesso, cosa farai, Brian?”
Due signori scesero le scale con un cagnolino al guinzaglio ed io rimasi pietrificato in quella posizione. Avevo una paura fottuta delle conseguenze ma dovevo, volevo dimostrargli che non c’era niente di male in quello che stavamo facendo. Era solo… tutto nuovo per me.
«Cerca di capirmi.» Mormorai ancora fermo in quella posizione. I due coniugi arrivarono alla rampa di scale dove eravamo noi e salutarono Jack. Solo in quel momento mi spostai, per permettergli di parlare con la coppia.
Ci guardarono sorridendo imbarazzati, un po’ come la mia espressione e, nonostante mi sentissi a disagio, restai lì, su un gradino più basso rispetto a quello di Jack mentre aspettavo che i convenevoli finissero.
Quando la coppia uscì dal portone respirai profondamente e mi appoggiai al muro.
«Vuoi ancora salire?» Mi chiese imbarazzato, spostando il peso da un piede all’altro. Potevo dirgli di sì, salire nel suo appartamento e provare a raccontargli cosa stava davvero succedendo nella mia testa, ma non era il caso. Dovevo mettere in ordine i pensieri e catalogare tutto ciò che era successo quella sera.
«Vorrei, ma è davvero tardi e domattina abbiamo un’esercitazione molto presto. Se salissi farei troppo tardi e…» Non sapevo più come continuare.
«Ho capito. Non preoccuparti.» Sembrava che si riferisse ad altro e non solo al mio rifiuto.
«Ci vediamo. Notte Jack.»
«Notte Brian.»


Tornai con la testa in quella camera e cercai di raccontare quello che potevo a Bella.
«Sì, ci siamo baciati. Poi sono tornato alla base a riflettere su quella nuova rivelazione della mia vita e sull’eccitazione che avevo provato. Non fu facile accettare quello che mi stava succedendo. Il sabato dopo non andai in quel bar. Restai alla base. Non avevo il coraggio di affrontarlo e affrontare il mio nuovo me stesso. Avevo baciato un uomo. Mi piaceva un uomo. Non avevo mai sospettato di nulla e… ero sconvolto.»
«E Jack?» Risi, ripensando alle conseguenze.
«Me l’ha fatta pagare cara.» Mi staccai da Bella per continuare il racconto. «Il sabato dopo mi presentai, convinto a dare un’opportunità a quello che provavo. Volevo chiedergli di uscire, ci avevo pensato tutta la mattina al modo per farlo, ma quando varcai la porta del locale lo trovai a ridere con un gruppo di amici. Tutti uomini. I miei compagni erano già al tavolo da biliardo. Mi aspettavano con la birra già stappata. Persi entrambe le partite, poi mi decisi ad andare a quel maledetto tavolo. Ero un cazzo di uomo geloso e fuori di me dalla rabbia. Insomma, gli avevo chiesto di capire quello che stavo passando, ma sembrava che quello che si prendeva gioco di me fosse lui. Ero incazzato. Così presi la mia birra e mi avvicinai. Il coraggio però evaporò nel momento in cui lo vidi prendere il giubbino per uscire. Mi stava sfuggendo. Mi guardò negli occhi, mentre mi avvicinavo ma decise di ignorarmi e di proseguire verso la porta del locale. Mi voltai verso i miei compagni, erano tutti lì a fissarmi e a indicarmi di seguirlo. Abbandonai la birra da qualche parte e mi affrettai a raggiungerlo. Stava diventando sfiancante quella cazzo di situazione.»

Riuscii a prenderlo per un braccio, proprio pochi attimi prima che arrivasse alla porta. I ragazzi con cui era venuto uscirono credendo che lui fosse con loro, mentre io lo tenevo saldo dentro il locale. Si girò verso di me, la furia in volto.
«Che cazzo pensi di fare, Brian?» Io ero ancora più incazzato perché non aveva capito un cazzo e perché io ero stato troppo codardo.
«No, cosa cazzo pensi di fare tu, Jack?» Sgranò gli occhi e liberò il braccio dal mio.
«Che vuoi dire?» Indicai la porta del locale con il braccio, da dove erano usciti i suoi amici.
«Che diavolo era quello? Un modo per farmi capire che hai capito?» Molti del locale si voltarono a guardarci ed io mi sentii imbarazzato. Non tanto per la persona che avevo di fronte ma per la lite che stavamo mostrando a tutti. Ovviamente non comprese il motivo del mio imbarazzo e si mise sulla difensiva subito.
«No, un modo per farti capire che io ho le idee chiare e che me ne sbatto delle persone che non sono sicure di ciò che vogliono. Ora vado, mi stanno aspettando.»
«Aspetta.» Lo fermai. «Possiamo parlare da qualche altra parte?»
«Qui non va bene? È troppo affollato per i tuoi gusti?» Lo scherno nella sua voce mi fece incazzare ancora di più. Ero al limite. Dovevo già combattere contro me stesso, non potevo stare lì a litigare per delle cazzate.
«Basta, cazzo!» Con la mano libera gli afferrai la testa e lo avvicinai a me. Lo baciai lì, davanti a tutti. Appoggiai le mie labbra sulle sue e con la lingua cercai di farmi spazio per fargli aprire le labbra. Ricambiò il bacio appoggiando la mano, che non avevo intrappolato, sul mio fianco. Ci staccammo dopo qualche secondo con il fiatone. Vidi il proprietario del bar avvicinarsi e tremavo già per l’ansia di dover difendere quello che era appena successo. Quel cazzo di pub mi piaceva, non volevo casini.
«Tutto a posto qui?» Chiese con i pugni serrati lungo il corpo.
«Sì.» Dissi a denti stretti. Ero di fianco a Jack, durante il bacio le nostre dita si erano cercate e intrecciate e avevamo ancora le mani unite.
«Entrambi?» Si rivolse a Jack. «Il ragazzone ti ha dato fastidio? Posso sbatterlo fuori se vuoi.» Buttai fuori l’aria rilassandomi e stringendo le dita di Jack.
«Tutto bene. Piccoli litigi di coppia.» Rispose Jack al mio fianco. L’espressione dura del proprietario mi fece tremare, credevo che stesse per dirci di tenere queste cose fuori dal suo locale.
«Bene. Cercate di non litigare tirandovi addosso la mobilia del locale e senza far preoccupare le mie guardie all’ingresso, temevano di dover sedare una rissa.» Sorrise e ci diede una pacca sulla spalla prima di tornare da dove era arrivato. Spinsi Jack verso un tavolino isolato, seminascosto. Non me ne fregava un cazzo di quello che poteva pensare in quel momento. Avevo bisogno di prendere fiato e di avere qualche minuto con lui.
Ci sedemmo e appoggiammo entrambi le mani sul tavolino. La folla era tornata a ignorarci e i miei compagni erano ben distanti, potevo avere tutta la privacy che mi serviva in quel momento.
Lo vidi tentare di iniziare un discorso ma cominciai, battendolo sul tempo.
«Adesso stai zitto e fai parlare me. Due settimane fa ti ho chiesto di capirmi, evidentemente non sono stato abbastanza chiaro.»
«Oh, lo sei stato sabato scorso.» Si riferiva al fatto che non mi ero presentato al bar mentre i miei colleghi c’erano tutti.
«Ho detto taci.» Lo fulminai con lo sguardo. «Non c’ero perché avevo bisogno di rendermi conto di cosa era successo.» Stavo prendendo fiato, volevo buttare fuori quella cazzo di situazione.
«Mi hai baciato, coglione. Cosa c’è da capire?» Ero furioso, non mi lasciava finire e al tempo stesso tutto questo mi eccitava da morire. Mi avvicinai con lo sgabello al suo e affondai le dita tra i suoi capelli spingendolo contro di me. Le nostre fronti si toccavano e le labbra erano a qualche centimetro. Il suo fiato caldo sulle mie labbra me lo fece diventare duro.
«Sei il primo. Cazzo. Sei il primo uomo da cui sono attratto e me ne sono reso conto due mesi fa. Per me tutto questo è nuovo e spaventoso. Questo dovevi capire, questo dovevo capire. Devi piantarla di fare l’uomo di mondo incazzandoti perché non voglio mettere su piazza tutto questo. Hai capito?»
«Se ti vergogni di stare con me in pubblico non iniziare neanche.»
«Non mi vergogno, porca puttana. Mi sento a disagio perché non so cosa fare, come comportarmi, cosa è meglio fare, come possono reagire le persone attorno a noi. Viaggio in un campo minato da due mesi e tu mi fai calpestare tutte le mine presenti nell’arco di pochi secondi. Dammi tregua ragazzino.»
«Non devi pensare a come reagiscono le persone attorno a te. E’ un problema loro.»
«Lo so, mi ci vorrà tempo penso, ma tu devi smetterla di mettermi alla prova e di sfidarmi come hai fatto stasera. Venire con quelli, è stato un colpo basso.»
«Lo stesso non venire sabato scorso.»
«D’accordo, hai ragione. Posso farmi perdonare chiedendoti di uscire con me?»
Appoggiò la mano sulla mia coscia e sentii la pelle andare a fuoco.
«Sei serio?»
«Come un funerale.»
«Merda! Sì. Sì che voglio uscire con te.» Il suo sorriso mi fece vibrare il cuore. Ero cotto.
«Solo un paio di regole. Ci stai?»
«Dipende.»
«Immaginavo. Prima di tutto, decido io dove e quando, ti devi fidare di me e lasciarmi un po’ di spazio di manovra. Non sono mai stato un’esibizionista nella mia vita e odio le dimostrazioni di affetto in pubblico.» Stava iniziando a parlare e decisi che tappargli la bocca con la mia in un bacio a stampo era proprio la scelta migliore. Mi staccai dopo un attimo, ancora serio. «Per te potrà essere una cosa normale, ma devi davvero capire che per me è tutto un grosso punto di domanda piovuto dal cielo e che mi sto mettendo in gioco per la prima volta. Quindi, lasciami qualche momento di assestamento, per favore.»
Sospirò e annuì con il capo.
«La seconda regola?»
«Non farmi ingelosire, mai più. Non sono emozioni che mi piacciono, non ci sono abituato e non ho tempo per gestire queste cazzate, ragazzino. Potrei partire da un giorno all’altro per una missione e voglio essere sereno riguardo a noi.»
«Noi?» Chiese sussurrando.
«Noi.» Dissi baciandolo ancora una volta. «Non mi spaventa dirlo e non mi spaventa provarci. Quindi, ci stai alle mie condizioni?»
«Sì.»
«Bene. Adesso puoi decidere tra due alternative. Puoi tornare fuori con i tuoi amici e continuare la serata con loro… oppure puoi conoscere i miei colleghi e farti una partita a biliardo con me.»
«Se resto posso baciarti quando mi va?» Grugnì in risposta e gli morsi il labbro leccandoglielo subito dopo.
«Mi farai diventare pazzo, lo so già. Sei un guaio ambulante.» Mi sorrise e appoggiò le labbra sulle mie.
«Scelgo di passare la serata qui con te. A patto che possa toccarti il culo quando ti pieghi per giocare.» Risi e scesi dallo sgabello.
«Vieni pivello, a questo gioco possiamo giocare in due. A fine serata non ti ricorderai neanche come ti chiami!» Si mise a ridere e mi affiancò mentre andavamo verso l’altra sala. Appoggiai un braccio sulle sua spalle e baciai la sua tempia prima di raggiungere la sala dei tavoli da biliardo.
«Stasera questi jeans ti fanno un culo meraviglioso.» Sussurrai sul suo orecchio. Mi staccai da lui solo davanti al tavolo dei miei compagni, giusto per fare le presentazioni. Al tavolo non ci fu nessun imbarazzo e la serata proseguì meglio di come era incominciata. Ma persi ugualmente tutte le partite perché ero troppo eccitato per concentrarmi.

«Non so perché, ma sembra che tu stia rivivendo ogni momento nella tua testa, fratellone.» Mi sorrise nel buio della stanza e io mi sentii più sereno.
«Sono i momenti più belli da ricordare, l’inizio di tutto, i primi sguardi, i primi baci… tutto.»
«Sono ancora qui che aspetto.»
Sbadigliai e chiusi gli occhi.
«Possiamo continuare la storia domani?»
«Certo.» Mormorò accarezzandomi il braccio. Poi sospirò e sapevo che stava per dire qualcosa. «Posso farti solo una domanda?»
«Sì.» Dissi sbadigliando.
«Se tu fossi me, adesso, se dovessi fare una scelta come la mia, Edward o non Edward… sceglieresti davvero di rischiare di soffrire per una relazione?» Spalancai gli occhi e guardai in quelli di mia sorella.
«Sì.» Dissi a voce bassa. «Ma cosa mi stai chiedendo in realtà?»
«Non so cosa sia successo con Jack e forse cambierò idea alla fine della storia ma… Perché non state più insieme? Perché non sei andato a riprendertelo? Perché non torni definitivamente qui tra noi e non cerchi di rifarti una vita?»
«Bella.» Sorrisi scuotendo la testa. «Se fosse tutto così semplice avrei mollato mesi fa. Invece le cose sono complicate, più di quanto tu possa immaginare. Tornare qui è un’alternativa, è una scelta che ho preso in considerazione, ma fra qualche tempo. Ma Jack…» Lasciai la frase incompleta e sospirai.
«Jack cosa?»
«Non è così semplice. Non è come te con Edward, io non posso scegliere di andare da lui e dirgli che lo amo più di me stesso e che scelgo lui nonostante tutto.»
«Perché?»
«Perché no.»
«Non è una risposta, non comportarti come se non potessi capire.»
«Non sai tutta la storia, non sai quanto sia stato difficile per lui vedermi prendere quel borsone e partire, non sai cosa abbia voluto dire mettere un punto a una relazione di anni per paura. Non sai… Non sai cosa voglia dire tornare credendo di sistemare le cose e trovarlo con un altro. Felice. Innamorato. Sereno. Realizzato. E’ qualcosa che ti si rompe dentro e che non puoi aggiustare. Non puoi.»  Chiusi gli occhi ripensando a tutti i nostri baci, le carezze, i sospiri… i suoi sorrisi. Erano la cosa che mi mancava di più in assoluto. Il suo sorriso aveva la capacità di rendere tutto più bello, più facile. Gli ultimi tempi quel sorriso l’ho visto così poche volte che partire, in qualche modo, mettere fine al nostro rapporto mi ha fatto sentire sereno da una parte, perché sapevo che lui avrebbe trovato la felicità con qualcun altro e avrebbe ricominciato a sorridere. Meritava tutto dalla vita.
«Brian.»
«Lo so. Lo so cosa stai pensando. So che nella tua mente dici a te stessa che il mio lavoro, le mie scelte hanno rovinato molti rapporti. Io e la mamma non ci parliamo più. Io e te… ho sofferto tantissimo perché ci siamo separati, davvero. Mi sarei strappato una gamba, ad un certo punto, pur di parlare con te, ascoltare la tua voce, sentirti ridere e sentirti dire che mi volevi bene. Avevo bisogno del tuo affetto, avevo bisogno del calore dei tuoi abbracci anche se eravamo distanti. Soffrivo come un cane. E poi io e Jack. Nella vita ne abbiamo passate tante, abbiamo sofferto per la morte di papà e poi nulla è stato come prima. Perdere Jack è stato come morire per un po’.» Respirai a fatica, le lacrime minacciavano ancora di rigarmi il viso ed ero stanco. Stanco morto di doverle trattenere, di dover essere forte, di sentirmi così vulnerabile. «Perciò risparmiami la ramanzina sulle mie scelte, perché ci sono giorni che vorrei tornare indietro e prendermi a cazzotti nel momento stesso in cui ho solo pensato a quell’idea.»
«Puoi sempre ritirarti.»
«Non è così semplice Bella.»
«Ma se tornassi qui, se facessi un altro lavoro, non così lontano, non così rischioso…» La fermai ridendo amaramente.
«Cosa? Potrei tornare con Jack?» Scossi la testa lasciando cadere quelle lacrime maledette. «Jack è stato molto chiaro con me, Bella. Quando mi ha salutato e si è voltato ha messo un punto così grande e pesante da farmi sprofondare. E quando sono tornato dalla missione e sono andato a riprendermelo… Lui era andato avanti. Senza di me.»
«Non può essere finito tutto, da come mi descrivi l’inizio sembra una storia magnifica che non merita un finale.»
Risi, risi scuotendo tutto il corpo e facendo sobbalzare il letto e poi la risata si trasformò in pianto e il silenzio calò sulla stanza.
«Il nostro primo appuntamento è stato uno schifo meraviglioso. Avevo organizzato una serata al ristorante, uno di quelli chic, dove il cameriere ti accompagna al tavolo e ti serve il vino. Tutti ci guardavano ed io mi sentivo così in imbarazzo da non riuscire a mangiare. Lui mi aveva ascoltato, mi dava il beneficio del dubbio, mi lasciava il tempo di capire, abituarmi, fare le cose a modo mio. Finché non fu troppo. Restai in silenzio per quasi tutta la cena. Avevo pensato di organizzare in un posto così per trovare poca gente, pensavo di sentirmi a mio agio, ci guardavano tutti invece. Avevo sbagliato e stavo rovinando la serata a entrambi. Non gli avevo dimostrato nulla.» Avevo davvero bisogno di tirare fuori tutta quella storia, quella maledetta versione dei fatti che avevo rivisto miliardi di volte nella mia testa e che mi aveva fatto soffrire come una tortura cinese. Mia sorella ascoltava, lasciandomi libero di parlare quando più me la sentivo. Avevo capito che quella notte non avremmo dormito, avevamo un sacco di tempo da recuperare e, a dir la verità, ero felice. «Così quando uscimmo dal ristorante lui cercò una scusa per defilarsi e andarsene a casa. Ero così imbranato Bella, così incapace, imbarazzato… Volevo fare le cose a modo mio, sbagliando. Volevo fare le cose con calma e invece non avevo tempo.»
«E’ andato a casa?»
«No. Eravamo nel bel mezzo del marciapiede e lui stava cercando le parole giuste per liquidarmi. Probabilmente pensava che fossi un cretino. Così prima di permettergli di ringraziarmi per la serata di merda lo attirai a me e lo baciai. Uno di quei baci che ti tolgono il fiato. Eravamo davanti alle vetrine del locale dove avevamo cenato e le stesse persone ci guardavano da dentro. Non me ne fregava nulla in quel momento.»


«Brian, mi dispiace ma…» Non lo lasciai finire di parlare e lo baciai ancora, finché non mi spinse via con il fiatone. «Sei una persona davvero meravigliosa e credo tu possa rendere felice qualcuno, un giorno. Ma devi mettere ordine nei tuoi pensieri. Questa serata è stata uno schifo colossale, e ancora di più adesso, mi baci per… non so esattamente cosa stai cercando di fare. Ho ascoltato le tue regole, ho cercato di capirti, ho mangiato in un posto che ti metteva a disagio senza sapere perché, ed ero solo, seduto a quel tavolo. Non hai detto neanche una parola e non hai toccato cibo. Non sono pronto a combattere contro queste paure, ho già dovuto affrontare le mie ed è stato difficile. Mi dispiace.»
Sospirai e strinsi i pugni. Aveva ragione.
«Avevo scelto questo posto perché è poco frequentato ma ho sbagliato. Pensavo che mi sarei sentito a mio agio, ma forse è ancora presto.»
«Già, lo credo anche io.» Passò le sue mani tra i capelli e rise appena. «Tutto sommato è stata una breve e bella parentesi tra noi. Potremmo raccontarla un giorno e farci due risate.»
«No, non credo.» Mi avvicinai per restare vicino a lui. «Non è stata una breve e bella parentesi. Non voglio che sia questo. Ti voglio chiedere scusa.» Sgranò gli occhi alle mie parole. «Ti chiedo scusa per questo appuntamento disastroso e per aver fatto una pessima scelta. Vorrei che mi dessi la possibilità di rifare tutto d’accapo.»
«Brian…»
«Non sto cercando di prendermi gioco di te, Jack.» Vidi il timore nel suo sguardo. «Non voglio farti soffrire. Davvero, credimi. Voglio che tra noi funzioni. Voglio stare con te in tutti i sensi e in tutti i modi. E se io non sono in grado di fare scelte corrette, farò scegliere a te la prossima volta. Però, ti prego, concedimi una seconda opportunità.» Lo vidi titubante mentre osservava i passanti che ci evitavano, poi quelli seduti al ristorante che ci guardavano.
«Ne sei sicuro?»
«Sì.»
«Okay, allora. Cosa volevi fare una volta finita la cena?»
«Pensavo di camminare fino al pub a due isolati da qui e di berci qualcosa insieme.»
«Avresti fatto meglio a progettare l’intera serata in quel pub, fanno da mangiare, ti saresti sentito meno osservato e forse avresti potuto mangiare qualcosa e dire almeno due parole.»
«Giusto. Mi dispiace.»
«Ti propongo qualcosa io, puoi scegliere tu, d’accordo?» Annuii e basta.
«Puoi venire qui, baciarmi e poi accompagnami a casa. Voglio prepararti un hot dog che ti farà sospirare di piacere e voglio vederti seduto sul mio divano con le gambe allungate sul tavolino mentre ti rilassi. Oppure possiamo andare in quel pub e fare finta di niente, cercando di conoscerci meglio. A te la scelta.» Non ci pensai più di mezzo secondo. Lo raggiunsi, con le mani sulle guance mi avvicinai alla sua bocca e lo baciai.
«Scelgo la tua proposta.»
«Bene. Anche perché non è detto che mangerai quell’hot dog completamente vestito.» Risi e lo baciai di nuovo, prendendolo per mano e accompagnandolo alla macchina.

«Quindi poi l’appuntamento è andato per il meglio?»
«Sì. Siamo andati a casa sua dove ha davvero fatto due hot dog da leccarsi i baffi, poi siamo stati sul suo divano a baciarci, guardare un film, baciarci ancora e parlare fino a che non ho iniziato a prendere sonno. La settimana dopo ho fatto le cose al meglio. Ho prenotato in un ristorante più frequentato, meno chic e poi abbiamo raggiunto gli altri ragazzi al pub. E’ andato tutto bene e Jack ha iniziato a fidarsi di me.»
I primi tempi sono stati meravigliosi. Lui che mi cercava in continuazione, io che lo mettevo al centro della mia vita più del lavoro; tutti momenti che abbiamo condiviso senza sentirci un peso l’uno per l’altro. Poi le cose hanno iniziato a peggiorare a qualche mese dalla sua laurea.
«Avete convissuto?»
«Si, per un periodo. Ho chiesto alla base se era un problema e con il loro permesso vivevo nel suo appartamento, piccolo ma perfetto per due persone come noi. Io ero fuori quasi tutta la giornata e lui, con la laurea che si avvicinava sempre di più viveva praticamente in biblioteca. La sera ci trovavamo entrambi nell’appartamento per cenare e guardare un film fino ad addormentarci sul divano.»
«Sembra perfetto da come lo racconti.»
«Lo era.»
«Cosa è andato storto?»
«Penso che entrambi volessimo di più, ma in modo diverso. Lui voleva spostarsi, continuare a stare insieme, creare un futuro stabile. Mi chiese di cambiare lavoro, di chiedere una nuova mansione e di ritirare la mia richiesta per le missioni. Io desideravo solo che lui si fidasse di me e che mi aspettasse.»
Chiusi gli occhi nuovamente quando i pensieri si affacciarono di nuovo a farmi soffrire.
Non volevo arrivare a questo stasera, non pensavo di riuscire a parlare con mia sorella di Jack come se mi fosse passata, come se avessi la forza di superare qualsiasi immagine che tornava a tormentarmi.
Immaginavo che come primo giorno avremmo parlato del più e del meno, non di cose così profonde.
Dovevo pensarci, però, in fondo non ci vediamo e non ci sentiamo da anni, con molta probabilità è curiosa della mia vita quanto lo sono io.
«Sapeva che avevi scelto questa strada ancora prima di mettersi con te. Perché allora non gli andava più bene?»
«A dirti la verità, non lo so.» Ammisi dopo averci pensato. Nonostante tutti i litigi riguardo all’argomento questa è una cosa che non mi ha mai detto. «Ho solo pensato che fosse cambiato, che con il tempo il suo desiderio per il futuro fosse evoluto in qualcosa di più.»
«E’ una cosa molto triste. E’ come se accettasse te, ma non una parte di te.»
«E’ la stessa cosa che hai fatto tu, Bella e la stessa che ti si sta ripresentando con Edward. E’ facile parlare e dire certe cose, poi però nel momento in cui ti ci trovi in mezzo bisogna sempre vedere come ti comporti.»
«Hai ragione.» Non volevo rinfacciarle ancora il suo comportamento ma sentivo il bisogno di farle capire che forse, il comportamento di Jack, è stato molto più che normale.
«Ci vuole coraggio per aspettare qualcuno che decide di partire per la guerra, lo sai bene.»
«Già.» Mi risponde rammaricata. «Quindi vi siete lasciati così?»
«Non è stato così rose e fiori. Non è stata una decisone presa di punto in bianco. Ci sono state molte liti, parole che volavano per il suo appartamento come lame affilate e taglienti. Ci siamo rinfacciati cose che dovevano essere morte e sepolte. Errori e sbagli erano diventati colpi che utilizzavamo per bersagliare l’altro nel momento in cui ci vedevamo in casa. Era diventato un rapporto ingestibile.»
«E lì hai accettato la prima missione?»
«Non potevo fare altro, Bella.» Dissi a malincuore.
«Ne sei sicuro?» Quante volte mi ero fatto quella domanda? Forse un milione. E quante volte mi ero dato una risposta sincera? Mai.
«No.» Eccola qui la risposta sincera, la prima volta davanti a mia sorella. Non ero sicuro di aver fatto la scelta giusta, quella volta. Non sono sicuro di aver preso le decisioni corrette nell’arco della mia vita, ma ora come ora non mi pento della mia carriera, del mio lavoro, dell’essere dentro una tuta mimetica a proteggere delle vite per il mio paese.
«Cosa faresti se potessi tornare indietro?»
Risi di gusto perché nella mia mente sapevo che avrei cambiato moltissime cose, anche le più insignificanti alle volte. Mi sarei goduto di più il tempo con Jack, avrei evitato di perdere così tanto tempo a capire se davvero mi piacevano gli uomini piuttosto che le donne. Avrei risparmiato tempo nelle cose inutili, come litigare per le mutande fuori dal cesto della biancheria e avrei speso molto più di quel tempo a baciarlo.
Ne avrei cambiate un sacco di cose, se avessi potuto tornare indietro e rifare tutto dall’inizio.
«Probabilmente cercherei di convincerlo che saremmo potuti stare insieme nonostante tutto.»
«Non ci hai nemmeno provato?»
«Sì, mi sembra di aver fatto poco, in realtà, avrei potuto insistere di più.»
«Perché?»
«Ero arrabbiato, molto arrabbiato. Pensavo che arrivati a quel punto volessimo entrambi le stesse cose, invece lui voleva trasferirsi a Chicago, cambiare vita, comprare una casa più grande dove poter avere un cane, un giardino, e dove potessimo stare entrambi. Voleva che rimodellassi il mio futuro in base al suo, in un’altra base, con un altro lavoro. Io invece desideravo solo che mi comprendesse fino in fondo. Che credesse in quello che avevo scelto per il mio futuro. Ed ero arrabbiato, perché dopo tutto quel tempo non aveva capito niente di me.»
«Penso di capirlo. Non è una cosa semplice accettare il tuo lavoro, Brian. Non è così difficile immaginare cosa passava nella testa di Jack. Non voglio scusarlo, dico solo che lo capisco.»
«Io mi sono messo in gioco, per lui. Ho fatto cose che non avevo mai fatto. Sono andato a casa dei suoi genitori e sono stato presentato come il suo compagno, ho fatto amicizia con suo padre e sua madre, ho fraternizzato con sua sorella ed ho conosciuto tutti i suoi amici d’infanzia. Mi sono mescolato alla sua vita accettando tutto di lui, anche il suo futuro. Quando mi ha detto che non ce la faceva, che per lui era troppo difficile stare con una persona come me in quel momento, che voleva cambiare aria, città, stretta di amici… Io gli ho detto che avremmo trovato una soluzione, che non era così difficile come sembrava, che potevo anche non partire per molto tempo oppure tornare subito.» Pensare a quei giorni mi faceva male. Il cuore aveva iniziato a ricomporsi da poche ore, nel momento in cui avevo abbracciato mia sorella di nuovo, ma in quel momento, ricordando quelle lunghe e orrende discussioni, si spezzava di nuovo.

«Oppure potresti tornare dentro una bara. Ci hai mai pensato?»
«Ci penso continuamente, Jack. Ma è quello che ho scelto per il mio futuro. Sai cosa mi ha spinto a prendere questa decisione, ti ho raccontato di mio padre, del suo amore per la patria, dei suoi insegnamenti. Ti ho spiegato milioni di volte il perché.»
«L’hai fatto.» Disse mentre stava finendo di caricare la lavastoviglie con i piatti sporchi della cena, mentre io lo guardavo con le braccia incrociate, appoggiato al tavolo della cucina. «Ma forse qualche anno fa non avevi niente da perdere. Non credi?»
Mi scappò una risata amara.
«Niente da perdere? Pensi che una sorella e una madre che ora mi odiano siano niente da perdere? Bella non mi parla più e non sto neanche a raccontarti quanto penose siano le chiamate con mia madre.»
«Questo doveva farti capire che non è semplice giocare all’eroe, Brian.»
«Jack, piantala. Non farmi incazzare con questi giudizi da quattro soldi.»
«Va bene, parliamo di noi allora. Cosa ti aspetti in futuro da questa relazione?»
«Mi aspetto che saremo insieme, ad affrontare qualsiasi cosa.»
«Spiegami come!» Disse urlando e alzando le braccia verso il soffitto.
«Partire non vuol dire che non ci sentiremo mai e che non potremo vederci sai.»
«No, infatti.» Si appoggiò al bancone della cucina dopo aver chiuso la lavastoviglie. «Vuol dire che sarai in mezzo alle bombe e ai fucili che sparano impazziti, che mentre i tuoi compagni saranno fuori a salvarsi il culo tu passerai le giornate in video conferenza con me mentre ti racconto di quanto sia emozionante il nuovo farmaco creato in laboratorio. Giusto?»
«Si può sapere che cazzo ti prende stasera?»
«No, cosa cazzo prende a te in questo periodo, Brian!»
«Non ti capisco, davvero.»
«Ed io non capisco te, porca puttana. Ti sto chiedendo di scegliere, hai la possibilità di seguirmi, trasferirti a Chicago, fare un altro cazzo di lavoro dove non rischieresti la vita ad ogni battito di ciglia. Potremmo vivere insieme, prendere un cane, essere felici.»
Chiusi gli occhi ed aspettai qualche secondo prima di rispondergli.
«Se ho la possibilità di scegliere vuol dire che prendere una strada oppure l’altra è indifferente, no? Che le conseguenze non sono così drastiche e che se continuassi a perseguire i miei obiettivi tu saresti comunque al mio fianco… giusto?»
Non rispose subito, chiuse gli occhi e sospirò così forte che il riverbero dell’aria toccò la mia pelle, nonostante la distanza.
«No, per ogni scelta ci sono delle conseguenze, Brian.»
«E quali sarebbero in questo caso, Jack?»
«Io… Io non posso. Non voglio stare con una persona che rischia la sua vita così. Non ce la posso fare. Immaginarti in quelle zone, pensare che potresti farti del male, che potresti non tornare…ho paura. Tu non ne hai?»
«Ogni secondo della mia giornata, Jack. Ogni cazzo di secondo. Penso che potrebbero chiamarmi a partire in ogni momento e che potrei lasciare te qui da solo, mia sorella, mia madre. Penso che partirei ma non posso tornare quando mi pare e potrei non tornare. Penso che potrei vedere cose che mi cambieranno la vita drasticamente. Penso a tutto, ed ho paura. Lo ammetto. Ma senza paura dove potrei andare?»
«E allora perché non ritiri quella cazzo di domanda? Perché non chiedi di essere trasferito ad un’altra base, come meccanico, come ufficiale, come qualcuno che non deve partire?»
«Perché nonostante la paura è quello che voglio per la mia vita, Jack. Perché non lo capisci?»
«Come fai a chiedermi di capire la tua voglia di andare a morire?» Non riusciva neanche a guardarmi negli occhi. Immaginavo l’angoscia che provava, ogni volta che avevamo litigato si chiudeva in camera per ore prima di riuscire a parlarmi ancora senza urlarmi contro.
«Non vado a morire.»
«Parli come se non fosse una possibile conseguenza.»
«E tu parli come se fosse l’unica conseguenza possibile.»
«Perché è così. Perché anche se tornassi tutto intero la tua anima sarebbe spezzata, morta.»
«Ma che cazzo! Mi chiedo come abbiamo fatto a stare insieme per tutto questo tempo se siamo arrivati a discutere di questo ora.»
Mi diede le spalle e si mise a lavare il piano della cucina con forza.
«Non lo so. Ma devi pensarci perché io non ci dormo la notte per questa cosa e non so se potrò stare con te nonostante il tuo futuro.»
«Sei serio?» Non sapevo più cosa dire.
Jack non rispose. Restai lì ad aspettare ancora qualche minuto mentre la mia rabbia cresceva ad ogni secondo di silenzio che passava.
«Vaffanculo, Jack. Vaffanculo.»